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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Le venti giornate di Torino, di Giorgio De Maria

Ci sono persone più o meno sensibili al fascino della paura, persone più o meno suggestionabili. Mio padre, parlando con il dovuto rispetto, è sempre stato meno suggestionabile di un paracarro, e i film de paura lo disgustano per l'irrealtà delle trame.

Se siete della stessa opinione di mio padre, questo post non fa per voi. Io, magari sembra strano che uno scienziato dica queste cose, da sempre cerco libri e film inquietanti: rifuggo le possessioni demoniache, ma mi perdo volentieri nel mistero dei racconti gotici più perturbanti. Lasciatemi allora raccontare qualcosa sul libro in oggetto, scritto ormai quarant'anni fa dal compianto Giorgio De Maria.

Se fate un giro sul sito dell'editore Frassinelli, troverete una pagina decisamente accattivamente dedicata alla seconda edizione del romanzo, accompagnata da un file PDF pieno di informazioni e di commenti. Si tratta per lo più di commenti raccolti su blog letterari, che mirano a costruire attorno alle Venti giornate un'atmosfera maledetta.

Per farla breve, De Maria è stato un personaggio alquanto bizzarro: ha fatto il musicista, il critico per un quotidiano del Partito Comunista Italiano, e naturalmente lo scrittore. Non uno scrittore prolifico, bisogna dire, anche perché le Venti giornate sono state la sua ultima opera. Dal 1978 alla morte, avvenuta in un contesto di disagio nel 2009, non si segnalano altri volumi. Apparso per un piccolo editore nel 1978 e presto esaurito, questo racconto lungo è diventato un piccolo oggetto di culto per appassionati del genere.

Genere? Quale genere? È una domanda difficile. Fin dalla prima pagina, le Venti giornate raccontano in prima persona (seguendo lo schema del narratore-protagonista anonimo) le indagini condotte da un impiegato torinese (non già di un giornalista, coma taluni hanno scritto, dal momento che il protagonista lavora in "una ditta" e si legge che fa calcoli; forse un ragioniere, ndr) sui tragici fatti che dieci anni prima (del tempo del romanzo) hanno funestato la città subalpina. Le Venti giornate di Torino, per l'appunto. Autore di alcuni libri di storia locale, il protagonista entra in media res con l'intervista all'enigmatica sorella del Bergesio, la prima vittima di una catena di raccapriccianti omicidi perpetrati nelle strade della città, durante le afose ed insonni notti del luglio del (probabilmente) 1966.

Non mi dilungo nel riassunto della trama, giacché troverete dozzine di pagine web per informarvi. Mi interessa piuttosto affrontare la disamina critica - da un punto di vista tutt'altro che professionale come quello di un comune lettore - del testo.
  • Il libro è bello, cominciamo col dire questo. È scritto sapientemente, a parte piccole sbavature che non ne diminuiscono il valore, ed anzi aumentano la sensazione di realtà dei fatti descritti. Difficile riporlo senza essere arrivati all'ultimo, delirante capitolo. Provate a leggerlo in una sera di pioggia, soli in casa, in penombra: sapete chiudere il romanzo senza sentirvi inquieti, sottilmente spaventati, quasi osservati? Non avete voglia anche voi, come il protagonista, di scendere in strada a controllare se ci sia qualcuno che rovista nei cestini dell'immondizia, o qualcuno che vi guarda con un walkie-talkie in mano? Ecco, in questo senso il libro è un successo spettacolare.
  • È stato dato molto risalto alla questione della profezia di Facebook. La Biblioteca, luogo reietto che alcuni giovani dall'aspetto ordinato e affabile hanno costruito all'interno del Cottolengo per raccogliere tutti i manoscritti che i torinesi avessero desiderato far circolare, è stata paragonata alle bacheche dei social network. Ognuno affidava alla carta i pensieri più intimi e talvolta proibiti, libero dai vincoli della morale comune. Altri cittadini potevano consultare i manoscritti, e acquistare il diritto di conoscere il nome degli autori. Ecco, su questo punto preferisco uscire dal coro. De Maria non sembra veramente anticipare alcunché di futuribile, tutto è maledettamente contemporaneo: non si parla di mezzi e strumenti futuribili, si parla di faldoni di carta battuti a macchina o vergati a mano. Per questo ritengo, modestamente, che il libro utilizzi semplicemente il voyeurismo umano come espediente per diffondere il senso di intrusione che aleggia su tutta la storia. L'uomo ha sempre avuto fantasie proibite, e la scrittura ne è sempre stato il veicolo più eccitante. Nelle Venti giornate ci si ferma alla diffusione locale, fisica, di queste fantasie, raccolte con le modalità più antiche di fissaggio del pensiero. I social, credo, sono molto più pericolosi della Biblioteca di De Maria.
  • L'espediente delle statue che si animano e si scambiano di posto (non pensate subito alla fantascienza più scontata però), e che si sfidano utilizzando poveri esseri umani alla stregua di clave e mazze, regge la tensione fino ad un certo punto. L'ultimo capitolo, pieno di sgomento, ci fa pensare a Mazinga Z più che alla lotta tra il Bene e il Male. Personalmente non ritengo che il pregio del libro sia in questa parte della trama.
  • Ma allora, qual è il pregio delle Venti giornate? A me sembra che sia la claustrofobica sensazione di creare un varco per il passaggio del Male. Non tanto in senso religioso (De Maria, peraltro, visse una crisi di fervore religioso che me lo rende un po' sospetto), quanto in senso sociologico. Esistono epoche storiche in cui, forse, si è avvertita la presenza del Male in modo vibrante. Se pensate all'orrore dell'Olocausto, non siamo sulla stessa lunghezza d'onda. Io penso ai primi vent'anni del XX secolo, quando la Grande Guerra preparò la via alla lunga falce dell'influenza spagnola: milioni di morti in combattimento si trovarono in compagnia di milioni di morti per un virus allora invincibile. Non sembra un disegno superiore, come quello che De Maria sembra descrivere nellla cronaca delle Venti giornate? Il Male, sembra sussurrarci, è nascosto da qualche parte. Subdolamente, di notte, usando la povera umanità fragile, si apre uno spiraglio e cerca di prevalere. In quel momento non potremo fidarci di nessuno: una piccola suora dal velo bianco può terrorizzare più di un mostro alieno, una Simca rossa parcheggiata oltre il Po, sotto la Gran Madre, diventa il simbolo dell'impossibilità di sfuggire al controllo del Male. E, badate bene, De Maria non ci concede vie di fuga. Chi può dire se l'avvocato Segre, apparentemente così premuroso nel suggerire al narratore di lasciare Torino prima che sia troppo tardi, non faccia piuttosto il gioco del Male? Il capitolo conclusivo è la prova che esiste un Destino più grande di noi, piccoli uomini, poco più che marionette dell'agghiacciante teatrino che mette in scena le Venti giornate accanto ad una brutta chiesa di periferia.
  • Perché proprio Torino? Ovviamente abbondano le risposte facili: Torino è la capitale dell'occultismo, del satanismo, ecc. ecc. Non so, non mi sembra che in effetti il romanzo ne dia conferma. Piuttosto, ho avuto l'impressione di una scelta piuttosto casuale: tutto potrebbe sostanzialmente essere riportato ad un'altra città, con le dovute modifiche topografiche. Lo dice anche l'avvocato Segre: nessuno può dire che Torino sia stata scelta per una ragione particolare, forse doveva solo succedere da qualche parte. Ed anche questo, a pensarci bene, aumenta il senso di insicurezza nel lettore.
  • Da ultimo, non può sfuggire l'interpretazione sociologica e psicologica della trama. La follia generalizzata de torinesi privati del sonno per settimane, le visioni oniriche dei pochi testimoni stranieri di passaggio, l'impotenza delle forze democratiche davanti alla tragedia dei massacri notturni, perfino l'atteggiamento complice della suorina che attende sotto casa il protagonista: tutte situazioni che hanno somiglianze apparenti con il clima di tensione e di complicità degli anni del terrorismo rosso e nero, quando nulla era come appariva. Possiamo fidarci di un gruppo di giovani vestiti come soldatini in borghese, dall'aspetto affabile e sorridente, o saranno emissari di un potere occulto che sta tessendo la sua trama? Paranoie, certo. Roba da romanzi, ma pur sempre romanzi di qualità.
Se vi va di leggere un bel racconto de paura italiano, procuratevi questo libro. E poi scrivete quello che ne pensate, magari nella Biblioteca.

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