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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Matematici al mare

Era da qualche mese che non frequentavo un convegno di matematica. Fra impegni con l’insegnamento e la penuria di fondi che affligge l’università italiana da anni, bisogna selezionare accuratamente gli eventi scientifici a cui è possibile partecipare.

Una delle frasi più significative che ho sentito nel convegno di Gaeta che è appena terminato è questa

Che cosa fa un matematico a un convegno? Si lamenta!

Non avevo pensato che fosse una prerogativa della mia categoria professionale, ma sicuramente c’è del vero. Non che le ragioni per lamentarsi manchino, peraltro. Cito a memoria un collega più giovane:

Mi piacerebbe che ci facessero fare il nostro mestiere, fare ricerca e dimostrare teoremi.

Era sottinteso che oggi molte ore lavorative sono dedicate a svolgere attività amministrative, burocratiche, organizzative che tendono ad esaurire le energie e la pazienza. Non posso affermare che questo sia un difetto tutto italiano, in fondo tutti gli scienziati vivono con fastidio quelle incombenze che comunque fanno parte di un impegno accademico. So che spendere interi pomeriggi in riunione per votare una modifica di tre righe al regolamento didattico è spiacevole, ma è così ovunque.
La vera differenza fra l’Italia e il resto del mondo occidentale (con una tendenza alla diminuzione della distanza, ahimè) sta tutta nel giusto riconoscimento del lavoro. I docenti universitari italiani si accollano impegni e doveri in cambio di un salario che altrove sarebbe considerato ridicolo, tanto per fare un esempio. Un dottorando francese ha una borsa di studio più cospicua del mio stipendio, solo per dirne una.

Aggiungiamo il fatto che i docenti di matematica hanno, in Italia, un potere contrattuale prossimo al nulla (a differenza di ingegneri, economisti, medici, ecc.) e capiamo perché ci piace lamentarci durante i convegni. Come diceva un famoso matematico, per fare il nostro lavoro ci servono carta e matita. Il bilancio di un dipartimento di matematica non raggiunge le spese di funzionamento di un singolo laboratorio di biologia o di chimica; e se non muovi soldi, non interessi a nessuno.

È qui che dovrebbe sopperire il buon senso della politica: certe discipline e certe scienze costano poco e, nel medio periodo, rendono parecchio. Un bell’investimento, no? In Italia non funziona così, è meglio costare tanto e arricchire una lobby o una categoria, perché del futuro non ci è mai importato troppo. Il risultato è che i miei colleghi stranieri lavorano tanto, ma hanno uno stipendio soddisfacente e un ambiente lavorativo piacevole. Io ho lo stipendio che ho, chissà se domani ci sarà la carta per stampare i compiti d’esame e forse mi toccherà lavorare in un ufficio con 30 gradi centigradi perché mancano i soldi per accendere il condizionatore. Intanto la matematica italiana è ai massimi livelli mondiali per qualità e anche per quantità, bontà sua…

Ma un’altra cosa che mi è balzata agli occhi nella sua deprimente evidenza è che ai convegni siamo sempre gli stessi. Ci sono certamente i giovani, peccato che siano stranieri o italiani che hanno cercato fortuna all’estero. Da quasi dieci anni la politica italiana ha imposto un invecchiamento irreversibile dell’accademia, senza nuove immissioni in ruolo e senza prospettive per gli studenti meritevoli. Il sistema universitario è stato, come ho letto tempo fa, l’unico reale esperimento di punizione sistematica del pubblico impiego. Decine di migliaia di euro persi pro capite, tagli infiniti ai fondi di funzionamento e a quelli di ricerca, colpevolizzazione dei lavoratori. Il tentativo di creare un sistema ibrido tra precarizzazione e retribuzioni da socialismo reale sta fallendo miseramente, ma quello che più impressiona è che nessuna parte politica abbia compreso la portata di certe scelte.

Intanto andiamo avanti così, nell’illusione che un posto a tempo determinato in più sia una vittoria storica. Paghiamo un’ora di esercitazioni o di laboratorio quanto un’ora di pulizia delle scale condominiali, e ci stupiamo che nessuno si offra volontario.
L’università italiana è lo specchio demoralizzante di una nazione anziana ed egoista, e proprio per questo non cambierà rotta.

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