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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Guardare in faccia gli studenti

Anche in questi giorni di vacanze invernali (oggi è domenica 28 dicembre) mi imbatto in un articolo che parla di università. Eccolo qui, scritto dal professor Massimo Ferri, matematico dell'università di Bologna. Pur lasciando la lettura agli interessati, devo dire che il collega parte bene ma non riesce a spiegare quale sia la tesi del suo intervento.

Nel mio piccolo, anzi piccolissimo, anche io ho terminato da poco un corso e subito dopo l'Epifania i miei studenti proveranno a superare l'esame scritto. Io non ho insegnato l'algebra lineare ma il calcolo differenziale: poco importa. Anche i miei studenti, con alta probabilità, faticano a trovare un senso nei contenuti del corso di matematica: funzioni, limiti, derivate, integrali, polinomi di Taylor. Che cosa resta?

La risposta del professor Ferri sembra (giacché, ripeto, la tesi non mi è chiarissima) essere che è colpa (fra virgolette) dei docenti poco inclini ad accogliere gli studenti per il ricevimento settimanale, ad ascoltarne i dubbi e a guidarli verso la luce in fondo al tunnel. Il collega prova invidia per i docenti delle scuole superiori, i quali imparano nomi e cognomi di tutti gli allievi e per nove mesi li crescono, moderni precettori ed educatori.

Mah...

Io tendo a sposare la posizione di un collega, che scrive a commento del suddetto articolo che l'università italiana sta diventando una nuova scuola di Barbiana. Un'affermazione piuttosto dura e magari leggermente crudele, ma basata su un fondo di verità.
Fuori di metafora, chiunque lavori quotidianamente nell'accademia si è accorto che tutti gli sforzi riformatori di vari ministri e ministre, non sempre particolarmente qualificati a ricoprire tale ruolo, sottintendono un messaggio chiaro: cari (?) docenti, rallentate finché anche l'ultimo dei vostri studenti non abbia capito; dovete abbassare il livello di difficoltà, semplificare i programmi, includere anche chi forse ha sbagliato strada. E pazienza se questa politica ci guida verso un'università mediocre, perché i mediocri sono (per definizione, senza offesa e includendo me stesso) la maggioranza.

Per carità, è un tema delicato e non è possibile arrogarsi il diritto di pronunciare l'ultima parola. Sarebbe d'altronde ipocrita tacere che oggi la priorità degli accademici è azzerare il cosiddetto tasso di mortalità delle matricole: rozzamente, è la percentuale di matricole che abbandonano il corso di laurea al secondo anno, e per taluni è una misura della qualità della didattica.
Come tutti i numeretti, anche questo indice dice tanto e dice poco: impossibile fare la tara delle matricole che si sono iscritte tanto per... oppure per fare il celebre salto della quaglia: respinti ai test di un corso a numero programmato, frequentano uno dei pochi corsi liberi e al secondo anno chiedono il trasferimento. Oplà, e il numero programmato l'ha preso in saccoccia!

Domando, provocatoriamente, al professor Ferri da Bologna: se tanti suoi allievi ingegneri non hanno capito che cosa sia una matrice nemmeno dopo tredici settimane di corso, non sarà il caso di aspirare ad avere meno ingegneri, ma capaci di afferrare i concetti dell'algebra lineare? Insomma, mica tutti devono essere ingegneri, o chimici, o matematici!

Ricordo con quanta durezza una mia professoressa di francese delle scuole medie diceva alle mamme di alcuni compagni che i loro pargoli avrebbero fatto meglio a puntare su una scuola professionale, se non a cercarsi un lavoro manuale. D'accordo, era anziana, snob, e ai suoi tempi la società era maledettamente classista. Oggi un'insegnante che facesse discorsi simili sarebbe duramente rimproverata dal dirigente d'istituto, perché in fondo ogni paese è Barbiana. Eppure mi sembra che ci siamo spinti oltre, e l'università non è la scuola dove nessuno deve restare indietro. Possiamo tornare ai vecchi corsi annuali, forse più sensati e istruttivi; ma arriva un momento in cui occorre riconoscere che un certo tasso di mortalità fra le matricole è fisiologico. Dirò di più: è sano! Una laurea in matematica o in ingegneria non è il diploma di Giovane Marmotta.

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