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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Un futuro migliore?

Martedì sera mio padre stava guardando l'appuntamento quindicinale con il sindaco di Como in diretta televisiva. Si parlava soprattutto delle proteste contro l'allargamento della zona a traffico limitato (ZTL), che condannerebbe molti negozi al fallimento. A un certo momento non si è trattenuto, e ha osservato che per decenni usciva di casa alle 6 del mattino, faceva un chilometro a piedi per raggiungere l'autobus che lo portava alla stazione ferroviaria, e da lì arrivava a Milano. Ogni sera, lo stesso percorso in senso opposto. Questo per sottolineare che parcheggiare l'auto davanti al luogo di lavoro non è l'unica opzione. Il passaggio alla velata insinuazione che i giovani d'oggi sono rammolliti è stato breve.

Sono rimasto perplesso, pur non potendomi più considerare un giovane d'oggi. Ho pensato che è vero, la generazione di mio padre faceva una vita grama fin dal primo vagito, e il massimo della soddisfazione era un lavoro nella bottega di un artigiano per dieci ore giornaliere, sabato incluso. Andava bene così, l'alternativa erano la fame e la nomea di scansafatiche, fatta eccezione per i rampolli delle famiglie ricche.
Ora leggi i giornali, e i coetanei di mio papà scrivono lettere indignate perché gli inservienti delle case di riposo sono tutti stranieri: il lavoro forse ci sarebbe, ma i nostri ragazzi non accettano di pulire le "padelle" dei degenti per una vita. Avranno ragione?

Certamente il confronto fra il mutismo e la rassegnazione del primo dopoguerra e la profonda insofferenza odierna è stridente. Però il progresso è anche questo, ed è difficile e doloroso tornare indietro. Già, perché quando si parla di recessione tutti pensiamo ad un fatto monetario, e invece dovremmo interpretare il sostantivo alla lettera: recessione è un andare indietro, in tutti i sensi.
Dobbiamo smettere di credere che vivremo meglio dei nostri genitori e peggio dei nostri figli, ed è un colpo che farebbe vacillare chiunque.
Sessant'anni fa dalle mie parti c'era la religione che inculcava il senso del sacrificio e della sottomissione alle durezze della vita, mentre oggi questi argomenti sono meno forti.

Morale della favola, non ho saputo replicare all'uscita del genitore. Ha in parte ragione e in parte torto, non so se in parti uguali. Capisco il suo sfogo, ma capisco anche la disperazione di un ventenne che non ha il diritto di studiare e di sperare in un avvenire sereno, ma solo quello di contendere un impiego da inserviente ad un altro come lui. La realtà è che un tempo gli immigrati con la valigia di cartone eravamo noi; noi italiani facevamo in Germania e in Svizzera quello che oggi fanno a casa nostra gli uomini e le donne che vengono dai Paesi emergenti. Scappavamo dai disastri di una dittatura come molti di loro, e qualunque cosa - anche la più umiliante - era il primo passo verso il miglioramento. Forse ci salverà la fine del mondo storto, chissà.

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