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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Sfiducia

L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Questa sarebbe la definizione costituzionale del nostro Stato. Vorrei proporre di sostituire il sostantivo lavoro con sfiducia.


Mi sembra evidente che proprio la sfiducia costituisca il cemento che unisce la repubblica italiana. Quando vi recate in banca o in posta per pagare una bolletta, siete tenuti a conservare per anni la ricevuta, perché lo Stato non si fida di voi è potrebbe pretendere una dimostrazione del pagamento. Voi, tipicamente, non vi fidate dello Stato, e considerate le tasse come una specie di rapina legalizzata. 


La stessa Carta Costituzionale è incardinata sulla sfiducia: ad esempio, il tanto vituperato bicameralismo perfetto è una misura per prevenire una deriva autoritaria del potere. Praticamente ogni organismo statale è bilanciato da un altro organismo che ne previene la degenerazione. Nei fatti questo schema conduce ad una paralisi amministrativa e politica.


Un altro paradigma della sfiducia universale è il famoso concorso pubblico. La Costituzione impone che al lavoro nella pubblica amministrazione si debba accedere per concorso pubblico. E che cosa sarebbe un concorso pubblico? De facto è quell'utopia secondo cui il migliore candidato è scelto e premiato dopo una selezione oggettiva e imparziale. Ho scritto utopia perché, a mio avviso, tale si rivela necessariamente. Se il comune di Paperopoli abbisogna di un archivista, occorre esaminare centinaia di candidati e illudersi di poterli ordinare per meriti decrescenti: il primo nome sarà chiamato a lavorare nell'archivio di Paperopoli. 


Tutto ciò è figlio della sfiducia leopardiana: lo Stato non si fida dei cittadini, e dunque li sottopone ad esami spesso grotteschi. Ma per esaminare serve una commissione esaminatrice, composta da persone di cui è impossibile fidarsi. In un'infinità rincorsa ad escogitare sistemi contro la malafede, tutto il sistema si inceppa.

Prendete la procedura per assumere i professori universitari. Il ministero sorteggia alcuni commissari (da una lista di volontari), i quali devono ordinare per merito decrescente gli aspiranti professori. Ma siccome il ministero non si fida dei commissari, occorre un successivo concorso, essenzialmente localizzato presso i singoli atenei. Perché non accontentarsi di questo concorso? Ovviamente perché non possiamo fidarci della buona fede degli atenei! 

Alla fine il motore si ingolfa fra scarichi di responsabilità e relativi ricorsi alla giustizia amministrativa da parte di quelli che, è chiaro, non si fidano degli esaminatori. Insomma, much ado about nothing.


Non vorrei apparire apocalittico, ma alla soglia dei quarant'anni comincio a sospettare che l'Italia non sarà mai quel Paese normale che tutti vorremmo proprio perché non siamo capaci di fidarci. Il buon funzionamento della pubblica amministrazione, e più generalmente dello Stato intero, è basato sul rapporto di fiducia fra chi amministra e chi è amministrato. Evidentemente occorre fiducia nella giustizia, che colpisce tanto gli amministratori quanto i cittadini che delinquono.

La ricerca spasmodica di criteri oggettivi e quantitativi (il famigerato merito, strumento principale per giustifica nobilmente le peggiori nefandezze) è un triste paravento per la codardia di non voler decidere con assunzione di responsabilità. 

Ovunque una posizione apicale è fonte non solo di onori, ma soprattutto di oneri: quando siamo incaricati di prendere decisioni, possiamo fare bene o fare male. Nel primo caso possiamo essere premiati, nel secondo è inevitabile una punizione. 

In Italia i vertici (politici, amministrativi, economici) non accettano il rischio, e si scavano la trincea del criterio oggettivo: facile dire che, per legge, qualunque decisione è automatica, e che non si poteva fare altrimenti. Trovatemi una nazione in cui l'amministratore delegato delle ferrovie statali percepisca milioni di euro per aver peggiorato drasticamente la qualità dei trasporti su rotaia. Se il primo nome che vi è venuto in mente è quello dell'Italia, probabilmente siete brave persone. Se avete pensato "Non è colpa dell'AD se i ferrovieri sono fannulloni", probabilmente avete un futuro in politica. 

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