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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Non ho capito

Il titolo di questo post è una delle frasi (o una delle frasi equivalenti) che origlio più spesso la mattina, in treno. Quasi ogni gruppo di studenti propone una variante, tutti i giorni.
Ripensando agli anni della mia giovinezza, temo di averne abusato molte volte. Essere studente significa, potremmo dire, non capire qualcosa. All'inizio non capivo la matematica, poi non capivo la storia, poi non capivo la biologia, ecc. ecc. Un paio di settimane fa, una collega diceva che a mezzogiorno ha spiegato qualcosa, e alle due del pomeriggio aveva già gli studenti a ricevimento che si lamentavano di non aver capito.

La saggezza (poca) acquisita con l'esperienza (per fortuna non troppa) mi induce a pensare che spesso sia un alibi linguistico. Molti studenti usano l'incomprensione (in senso letterale) come arma di difesa, o come giustificazione per ritagliarsi un pomeriggio di svago. Tanto non capisco nulla! e via, a spasso con gli amici.

Non sono un fanatico, e credo nel valore educativo di qualche pomeriggio rilassato, che senz'altro offre al cervello il tempo di metabolizzare le informazioni raccolte. Ma faccio anche autocritica, perché ora so che quasi sempre non capivo quello che non mi piaceva. Insomma, non volevo capire, perché detestavo l'argomento. La mia bestia nera era la storia; quante volte mi sono lamentato con la professoressa perché non capivo una spiegazione? Direte voi che c'è poco da capire in una lezione di storia, salvo casi particolari. E avete ragione, almeno dal mio punto di vista: non capivo perché detestavo.

Detto questo, che mi sembra molto umano e condivisibile (inutile avere false speranze, non possiamo farci piacere qualunque cosa), trovo che ultimamente il tasso di sconforto per non aver capito sia in preoccupante aumento. Se spiego un teorema difficile, non mi aspetto che tutti i miei studenti padroneggino all'istante il contenuto. Ci mancherebbe altro! Eppure vedo che questa consapevolezza, che ormai ritengo fisiologica e naturale, crea problemi a molti giovani: faticano a capire subito un concetto, e quindi rinunciano perché tanto non ci arriveranno mai. Ma almeno dovrebbero provare, dare a se stessi un paio di giorni per assimilare e ripensare al teorema, concedersi il lusso di provare e di sbagliare.

Certamente a trentotto anni ho una visione più rilassata di quella che avevo alla loro età, ed è sacrosanto che a vent'anni i sentimenti siano più netti e taglienti. Ma ho paura che le ultime generazioni siano state risucchiate da una società omologata, dove nessuno ha più tempo per niente. Quando un esercizio non riesce, si cerca la soluzione su internet, o si manda un messaggio istantaneo al più bravo della classe. Io, al massimo, potevo alzare la cornetta del telefono fisso e sperare che qualche amico avesse voglia di fare i compiti insieme a me; oppure dovevo sfogliare i libri di testo e cercare di capire dove stessi sbagliando. Chi va piano, va sano e va lontano.

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