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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Elogio della suriettività

Da qualche giorno vado lamentandomi del progressivo svilimento di un nobile concetto matematico: quello della suriettività (detto anche surgettività o surjettività).

Definizione. Una funzione $f \colon X \to Y$ è suriettiva se $f(X)=Y$. Equivalentemente, per ogni $y \in Y$ esiste almeno un $x \in X$ tale che $f(x)=y$.

Questa definizione è stata una delle prime che la professoressa di algebra mi ha insegnato. In particolare, mi è stato insegnato che una funzione $f \colon X \to Y$ è invertibile se e solo se essa è iniettiva e suriettiva, sicché l'inversa agisce come $f^{-1}\colon Y \to X$. Se queste definizioni sono ancora universali fra gli algebristi e i geometri, noi analisi matematici tendiamo ad essere più generosi: è ormai consuetudine affermare che

Definizione. Una funzione $f \colon X \to Y$ è invertibile se è iniettiva, e la funzione inversa opera come $f^{-1} \colon f(X) \subset Y \to X$.

Qualcuno mi ha spiegato che è un'evoluzione verso il concetto di classe di equivalenza di funzioni, laddove due funzioni sono considerate equivalenti se possiedono il medesimo dominio e sono descritte dalla medesima legge, ma i codomini possono essere differenti. Quindi $x \mapsto e^x$ è tanto una funzione $\mathbb{R} \to \mathbb{R}$ quanto una funzione $\mathbb{R} \to (0,+\infty)$. Di più, consideriamo queste due la stessa funzione.

Io ribatto sempre che sono un bourbakista ortodosso: per me le definizioni devono essere il più possibile generali. Se è verosimile che la teoria delle funzioni reali di variabile reale può perfino avvantaggiarsi di questo passaggio al quoziente rispetto al dominio e alla legge, in algebra nascerebbero disastri a non finire. Lo stesso accadrebbe in topologia algebrica e generale, e ciò è male.
Anche l'obiezione che bisogna insegnare in modo proporzionato alla platea di studenti mi lascia perplesso: se ti insegno a camminare a quattro zampe, tu camminerai sempre a quattro zampe. Se ti insegno a camminare su due zampe/gambe, nulla di impedirà di gattonare, ma in compenso avrai imparato una tecnica più potente per spostarti. Fuor di metafora, credo sia meglio insegnare ad apprendere, piuttosto che insegnare tanti singoli concetti limitati all'uopo.

E infine: no, miei cari! Le funzioni $f \colon \mathbb{R} \to \mathbb{R}$, $f(x)=x^2$ e $g \colon \mathbb{R} \to [0,+\infty)$, $g(x)=x^2$ sono funzioni diverse. Una funzione, come recita la "bibbia" della matematica, è (almeno da un punto di vista costruttivo) una terna $(X,Y,f)$ composta da un dominio $X$, un codominio $Y$ e una legge $f$ che ad ogni $x \in X$ associa uno ed un solo $y \in Y$, che denoteremo con $f(x)$.
Poi quozientate quanto volete, ma non potete quozientarmi il cervello.

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