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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Rifiuto e vado avanti

In questi giorni c'è stato l'ennesimo putiferio per colpa di un preside di facoltà bolognese che ha impedito agli studenti di rifiutare il voto conseguito in sede d'esame. La faccenda si è rapidamente sgonfiata, c'è stata la prevedibile circolare "mi avete frainteso", e la pace è tornata.
Per capire meglio, occorre ricordare che un voto non si può tecnicamente rifiutare. Il rifiuto è invece la rinuncia a portare a termine l'esame, come tutti i regolamenti accademici concedono. Praticamente, lo studente è libero di ritirarsi dalla prova d'esame in qualsiasi momento, senza conseguenze. Per completezza, resta scoperto un caso: se l'esaminatore propone un voto, è lecito che lo studente lo respinga al mittente? Nonostante io abbia chiesto alcuni pareri, la risposta non mi è chiara.

Ma questo è un problema diverso, e servirebbe forse un civilista. Un insegnante si domanda piuttosto se sia opportuno concedere questa scelta allo studente. E qui le opinioni abbondano. Una parte del corpo docente sostiene che gli studenti devono essere liberi di aspirare al massimo, e dunque possono ripetere gli esami finché vogliono. Un'altra parte del corpo docente sostiene invece che l'università è utile quando è affrontata brillantemente: quanto può contare un 27 strappato dopo mezza dozzina di sufficienze stentate?

Francamente il problema è reale, e si annida nella visione stessa degli studi universitari. Se questi devono essere un viatico per conquistare un lavoro remunerativo, temo che poche aziende lungimiranti assumerebbero un laureato che abbia ripetuto tanti esami fino allo sfinimento. Ma se la carriera universitaria è concepita come un percorso di crescita e di acculturamento nel senso più ampio del termine, non dovrebbe esserci nulla di male nel provare e riprovare, alla ricerca dell'optimum.

Appartenere all'una o all'altra delle due scuole non è una scelta banale, perché bisogna pur riempire la pancia, oltre alla mente. Mi è stato detto che in altri Paesi gli studenti che ripetono più di due volte lo stesso esame sono espulsi dal corso di laurea. E parliamo di nazioni che aspirano ad essere il motore economico del mondo, nei prossimo decenni.

Ma, a ben guardare, conta anche la cultura nazionale: l'eccessivo rigore non appartiene a noi italiani, sempre benevoli verso chi sbaglia e chi ha difficoltà. Credo che sia un atteggiamento nobile, a patto di non abusarne.

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