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Riflessioni sull'insegnamento

  Corrono tempi alquanto peculiari nell'ambiente universitario. Bisogna premettere, doverosamente, che l'accademia italiana è stata a lungo un territorio vetero-feudale, cioè governato in larga misura dall'operato dei singoli docenti. Per essere concreti, tutti abbiamo sentito parlare dei famigerati professori "che non promuovevano nessuno", o di quelli che "passavano tutti al primo appello." In queso senso, i corsi di laurea avevano una trama comune piuttosto sfilacciata. Oggi tutto sta cambiando, e piuttosto velocemente. Dall'alto (nel senso di: governo, Europa, Mondo, Universo) arrivano pressanti richieste di trasparenza e omogeneità. Se un docente del 1985 poteva permettersi di insegnare praticamente ciò che voleva all'interno dei suoi corsi (con qualche vincolo, ma non troppo stringente), oggi si respira un'aria di regolamentazione sempre più forte. Questa regolamentazione non tocca, almeno in prima battuta, i contenuti degli insegnament

Piramide scolastica

Sono cresciuto nella convinzione che il sistema scolastico fosse una piramide: a sei anni si sale il primo scalino, e poi l'ascesa continua attraverso la scuola media inferiore, superiore, l'università e magari il dottorato di ricerca.
Adesso, dopo cinque anni di insegnamento universitario, ho la sgradevole sensazione che ogni ciclo sia impermeabile ai precedenti. Possibile che io debba spiegare a ragazzi usciti dal liceo scientifico che cosa sia una funzione goniometrica? Possibile che non abbiano mai risolto una disequazione razionale fratta? Ma che cosa insegnano i miei colleghi delle superiori, benedetto Iddio?

Il mitico professor Dario Pavesi, nel lontanissimo 1992, ci chiedeva di dimostrare nei compiti in classe la disuguaglianza di Cauchy-Schwartz in $latex \mathbb{R}^3$. Io non mi sentivo un genio, ma sapevo sommare le frazioni fin dalla terza media. Avevo amici delle scuole tecniche che risolvevano equazioni differenziali del secondo ordine a diciotto anni, mentre tanti laureati scientifici non le vedranno mai.
Tutto questo mi sembra aberrante. O forse no, se il modello di laureato è quello del lavoratore ideale per le aziende: muto, rassegnato, poco istruito. Non si sa mai che un laureato sveglio cerchi di cambiare il mondo...

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